FILIPPO STROZI

ANONIMO ARIMINENSE (De Molestia Homini)

  BENVENUTO CELLINI (1500-1571)

Nello quale lo messere Benvenuto Cellini, prendendo ispunto da una molestia per sfratto d'inquilino molesto, spernacchiando li dotti critici et sapienti de le accademie tutti, li quali molesti et ampollosi assay nello fornire ampie et complichevoli ispiegazioni alle cose semplici dell'humano idioma, definisce ispiegatione allo verso del Divino Poeta nello suo Inferno, Canto VII v.1 lo quale reca "Pape Satan Pape Satan Aleppe!" et sullo quale grandi sbrodolate de inchiostri sono istati versati con grande ispreco assay de carta pergamena ecc. ecc. et afferma lo Messere Benveuto che la galeotta frase attiene alle franzose usanze delli tribunali nelli quali lo gran cicalare et grida et urla par rappresentar l'inferno canto et nello quale li iudici usan redarguir le guardie (le quali più rumor del popolo fanno nello sedar l'animi eccittati!) con dure paole le quali allo mantenimento della pace esortando son rivolte et in tal modo hanno a pronunciare: "Phe Phe Satan phe phe Satan alé phe!" lo quale nello nostro italico idioma hanno a misurare quale "Pace, pace, Satana, andiamo! Pace" et in tal modo s'ha col dimostrare che allo Poeta Sommo "questi commentatori gli fanno dir cose le quali lui non pensò mai".

In questo medesimo tempo in Parigi s'era mosso contro a di me quel secondo abitante [1] che io avevo cacciato del mio catello, ed avavami mosso in lite, dicendo che io gli avevo rubato gran quantità della sua roba, quando l'avevo iscasato. Questa lite mi dava grandissimo affanno, e toglevami tanto tempo, che più volte mi volsi mettere al disperato per andarmi con Dio. (...) E a me intervenne questi ditti accidenti: e parendomi cosa molto disonesta, comparsi alla gran sala di Parigi per difendere le mie ragione, dovve io viddi un giudice luogotenente del re, del civile, elevato in su'n un gran tribunale. (...) Accadde, per essere quella sala grandissima e piena di gran quantità di gente, ancora usavano diligenza che quivi non entrassi chi non v'aveva che fare, e tenevano la porta serrata e una guardia a detta porta; la qual guardia alcune volte, per far resistenza a chi lui non voleva ch'entrassi, impediva con quel gran  romore  quel maraviglioso giudice, il quale adirato diceva villania alla ditta guardia. Ed io più volte mi abbattei, e considerai l'accidente; e le formate parole, quale io sentii, furono queste, che disse proprio il giudice, il quale iscorse dua gentiluomini che venivano per vedere; e facendo questo portiere grandissima resistenza, il ditto giudice disse gridando ad  alta voce: "Stà cheto stà cheto, Satanasso levati di costì, e stà cheto!"

Queste parole in nella lingua franzese suonano in questo modo: "Phe Phe Satan phe phe Satan alé phe!" [2]. Io che benissimo avevo imparato la lingua franzese, sentendo questo motto, mi venne in memoria quel che Dante volse dire quando lui entrò con Virgilio suo maestro drento alle porte dello inferno. Perché Dante a tempo di Giotto dipintore furono insieme in Francia e maggiormente in Parigi, dove per le ditte cause si può dire quel luogo dove si litiga essere uno Inferno: Però ancora Dante intendendo bene la lingua franzese, si servì di quel motto: e m'è parso gran cosa che mai non sia stato inteso per tale; di modo che io dico e credo, che questi commentatori gli fanno dir cose le quali lui non pensò mai. (La Vita, Libro II, XXVII)

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[1] Inquilino sfratatto dalla residenza assegnata dal re di Francia a Benvenuto Cellini

[2] in Francese: "Paix, paix, Satan; paix, paix, Satan; allez, paix"

[3] "Pape Satan, Pape Satan Aleppe!"; Dante Alighieri, Inferno, Canto VII v.1


Benvenuto Cellini BENVENUTO CELLINI (1500-1571)

Dove messere Benvenuto, avendo il duca … ricevuto in dono da Stefano da Pilestina, una mirabile figura di marmo greco la quale raffigurava con maestria antica l’effige di uno fanciulletto, subito si propone di offerire la sua opera per la resturare in le braccia, in la testa ed in li piedi et con l’aggiunta di una aquila per la quale, lo fanciulletto medesmo, potessi definire quale uno Gamenide et badasi bene, nonostante che codesta attività di restauro fusse opera de ciabattini et non di uno grande maestro, quale messere Benvenuto lo era, perocché lo suddetto messere Benvenuto se offferiva tanta era la bellezza di codesta opera antiqua ...

Un giorno di festa in fra gli altri me n’andai in Palazzo (…), il duca mi chiamò e con piacevole accoglienza mi disse: “Tu sia ‘l benvenuto: guarda quella cassetta che m’ha mandato a donare il signore Stefano di Pilestina: aprila e guardi mo che cosa l’è!” Subito apertola, dissi al duca: “Signor mio, questa è una figura di marmo greco, ed è cosa maravigliosa: dico che per un fanciulletto io non mi ricordo di avere mai veduto fra le anticagle una così bella opera, né di così bella maniera; di modo che io mi offerisco a Vostra Eccellenzia Illustrissima di restaurarvela, e la testa e le braccia e ei piedi. E gli farò un aquila, acciò che è sia battezzato per un Gamenide. E sebbene è non si conviene a me il rattoppare le statue, perché ell’è arte de certi ciabattini, i quali la fanno si gran malamente; imperò l’eccellenzia di questo gran maestro mi chiama a servirlo”. Piacque al duca assai che la statua fussi così bella e mi domandò di assai cose, dicendomi: “Dimmi, Benvenuto mio, distintamente in che cosa consiste tanta virtù di questo maestro, la quale ti da tanta maraviglia”. Allora io mostrai a Sua Eccellenza Illustrissima con il meglio modo che io seppi, (…) e molto più volentieri lo facevo, conosciuto che Sua Eccellenzia ne pigliava grandissimo piacere. (La Vita, LXIX)


  BACCIO BANDINELLI (1493-1560)

... e dove ancora quello marrano de messere Baccio Bandinelli volle portare dischonzo assay a messere Benvenuto sostenendo davanti a sua signoria illustrissima lo duca di Florenza che codesta opera antiqua era figura da poco e di mala forma perrocchè li antiqui non sapevano de anatomia et dove perciò lo detto marrano mise messere Benvenuto in difficultate con lo suddetto duca illustrissimo.

In mentre che io così piacevolmente trattenevo ‘l duca (…) entrò il Bandinello. Vedutolo il duca, mezzo si conturbò, e con cera austera gli disse: “Che andate voi facendo?” Il detto Bandinello, sanza rispondere altro, subito gittò gli occhi a quella cassetta, dove era la detta statua scoperta, e con un suo mal ghignaccio, scotendo il capo, disse volgndosi inverso ‘l duca: “Signore, queste sono di quelle cose che io ho tante volte dette a Vostra Eccellenzia Illustrisima. Sappiate che questi antichi non intendevano niente la notomia [1], e per questo le opere loro sono tutte piene di errori.”  Io mi stavo che e non attendevo a nulla di quello che egli diceva, anzi gli avevo volte le rene. Subito che questa bestia ebbe finita la sua dispiacevol cicalata, il duca disse: “O Benvenuto, questo si è tutto ‘l contrario di quello che con tante belle ragioni tu m’hai pur ora si ben dimostro: si che difendila un poco!”   (La Vita, LXX)

 

Benvenuto Cellini    Messere BACCIO e BENVENUTO (XVI Sec)

 

Dove Messere Baccio, istando le critiche de Messere Benvenuto alla opera di lui Ercole e Caco, montando in ira contra di lui, con infamia grande apostrofando Messer Benvenuto si compiace, ma costui rimane buggerato dalla arguta risposta di Messer Benvenuto et tutta l corte dello duca se ne ride assay e se ne va ghignando.

Questo uomo [1] non potette stare alle mosse d’aver pazienza che io dicessi ancora i gran difetti di Caco [2]; l’una si era che io dicevo il vero, l’altra si era che io facevo conoscere chiaramente al duca ed agli altri che erano alla presenza nostra,  (…) [3], che io dicevo il verissimo. A un tratto quest’uomaccio disse: “Ahi cattiva linguaccia, o dove tu lasci il mio disegno?” Io dissi, che chi disegnava bene e’ non poteva operar male; imperò io crederrò che ‘l tuo disegno sia come le opere. Or, veduto quei visi ducali, e gli altri, che con gli sguardi e con gli atti lo laceravano, egli si lasciò vincere troppo dalla sua insolenzia, e volomisi con quel suo bruttissimo visaccio , a un tratto mi disse: “Oh sta cheto, sodomitaccio!” (…) Io che mi sentì così scelleratamente offendere, sforzato dal furore, ed a un tratto, corsi al rimedio e dissi: “O pazzo, tu esci dai termini: ma Iddio ‘l volessi che io sapessi fare una così nobile arte, perché e’ si legge ch’è l’usò Giove con Gamenide in paradiso, e qui in terra e’ la usano i maggiori imperatori ed i più gran re del mondo: io sono un basso ed umile uomiciattolo, il quale né potrei nè saprei impacciarmi d’una così mirabil cosa!”  A questo nessuno non potette esser tanto continente, ché ‘l duca e gli altri levorno un romore della maggior risa, che immaginar non si possa al mondo. (La Vita, LXXI)

 

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[1] BACCIO BANDINELLI pseudonimo di Bartolommeo Brandini (1493-1560), scultore.

[2] Ercole e Caco, statuta attualmente adiacente al Palazzo Vecchio di Firenze.

[3] “che facevano i più gran segni ed atti di dimostrazione di maravigliarsi ed allora conoscere”

Camillo Porzio  CAMILLO PORZIO (1525-1580)

Nella quale si descrive la motivatione per la quale messere GIOVANNI PONTANO scrisse lo dialogo de l'ingratitudine ovvero l'Asinus, qual dedicazione al Prince Alfonso duca di Calabria et futuro rege ALFONSO II dello Regno de Napoli, quale di lui dileggio per non aver lo medesimo innalzato allo rango dovuto nei confronti dello patre suo Ferrante per li servigi dall'istesso resi quale mediatore per la definitione dello tratatto de pace con messere lo papa Innocenzo VIII in la guerra de la Congiura de' Baroni contra re ferrante conclusa in lo anno domini 1486 li 11 Augusto.

"(…) Nondimeno Innocenzo pensò con la pace non solamente conservare sé, ma le ragioni alla chiesa e gli stati a Baroni; perché di agosto 1486 con queste condizioni la firmò: che il re di Napoli riconoscesse la chiesa per superiore, pagasse il censo consueto, e li Baroni e comunità del suo regno per cagione di quella guerra si rimanesse di molestare. Accettolla a nome di Ferdinando il Pontano, uomo di molta eloquenza, e delle lettere che dicono umane assai benemerito (…) ma il duca, delle lettere poco amico, e dei benefici ricevuti sconoscente, non lo favorì appo il padre re, come doveva ed avrebbe potuto: da che provocato l’ambizioso vecchio, compose il dialogo dell’ingratitudine, dove, introducendo un asino dilicatamente dal padrone nudrido, fa ch’egli in ricompensa lo percuota co’ calci."

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CAMILLO PORZIO, La congiura dei Baroni del regno di Napoli contra il re Ferdinando I, Paolo Manuzio, Roma, 1565

Michelangelo Buonarroti  MICHELANGELO BUONARROTI, Lettere, (1475-1564)

Nella quale si descrive la grave molestia di Messere Pietro Aldobrandini a Mastro Michelagnolo, e la di lui buggerata per lo compiacere in buona fede. Lo Mastro Michelagnolo, richiesto dallo fratello amato Buonarroto, fornir mirabil daga per Messer Pietro Aldobrandini, ancorchè di non sua arte, si apparecchia per la fare da uno gran mastro in lame. Lo quale gran mastro con grande ritardo la compisce et Messere Pietro Aldobrandini con gran cicalare la schifa in la valutando non conferme alla di lui richiesta; ma allo vero, essendo essa fatta sullo modello fornito dallo istesso Messere Pietro Aldobrandini allo Mastro Michelagnolo pur sanza danari pagati allo mastro in lame rimane. Mastro Michelagnolo con dischonzo apparecchia Buonarroto per fornir presente a Mesere Filippo Strozi gran signore et con noja apprende de la pidocchieria de Buonarroto con gran bruttura per lo istesso Mastro Michelagnolo. (Anonimo Ariminense)

“Buonarroto, io ho ricevuto oggi, questo dì diciannove di dicembre, una tua per la quale mi raccomandi Pietro Aldobrandini e che io lo serva di quello che lui mi domanda. Sappi che lui mi scrive che io gli facci fare una lama d’una daga, e che io facci che ella sia una cosa mirabile. Pertanto io non so com’io me lo potrò servire presto e bene: l’una sì è, perché e’ non è mia professione, l’altra, perché io non ho tempo da potervi actendere. Pure m’ingegnerò infra un mese che è sia servito el meglio che io saperò” [1]

“ Buonarroto, (…) dì a Pietro Aldobrandini che io ho facto fare la sua lama al migliore maestro che sia qua di simil cose, e che di questa sectimana che vien m’ha decto che io l’arò. Avuta che io l’ho, se mi parrà cosa buona io gniene manderò; se no, la farò rifare. E digli non si maravigli se non lo servo presto come conviensi, perché ho ctanta carestia di tempo, che io non posso fare altro.”  [2]

“La lama di Pietro, come esco fuora, cercherò d’un fidato per mandargnene.” [3]

“Buonarroto, io non ho risposto prima alla tua e a quella di Piero Aldobrandini, perché io avevo disposto non iscrivere, se prima non avevo la daga del decto Piero. Egli è dua mesi che io la decti a fare a uno che ha nome di essere el migliore maestro che ci sia di simile arte, e benchè lui m’abbia starziato insino a ora, non ho però voluto farla fare a altri, ne anche torre cosa facta. Pertanto, se Piero sopra decto si tiene straziato da me, ha ragione; ma io non ho potuto fare altro. Ora ho riscossa ovvero avuta la daga, pure stamani e con gran fatica, i’modo che Piero mio [4] fu per bacterla in sulla testa del maestro, tanto ve l’ha facto tornare. E sappi che l’apportatore di questa sarà Chiaro di Bartolomeo bactiloro, el quale arà la decta daga. Fa’ pagare al decto Chiaro la vectura, quello ch’esso ne viene, e  dalla Piero. E se la non gli piacessi, digli che m’avvisi, che io  gniene farò rifare un’altra; e digli che qua, poi che ci venne la corte [5], ogni artefice e ogni arte è salito in gran pregio e condizione. Però non si deba maravigliare se io ho ctardato tancto a mandargniene, perché così sono stato straziato ancora io; chè questo maestro solo a’ vuta tanta faccienda, poi che ci fu la corte, che innanzi non ebbe mai tanta tucta Bolognia." [5]

“Buonarroto, io ebi più giorni fa una tua, per la quale intesi il ticto della daga e di Piero Aldobrandini. Io ti fò avisato che se non fusse stato per tuo amore, che io lo lasciavo cicalare quant’e’ voleva. Sappi che la lama che io ho mandato, e che tu hai ricevuta, è facta in sulla misura sua, cioè del decto Piero, perché lui me ne mandò una di carta in una lectera  e scrissimi che io la facessi fare a quel modo: e così feci; e però, se lui voleva una daga, non mi doveva mandare la misura d’uno stoco. Ma io ti voglio scrivere per questa quello che io non t’ho più voluto scrivere: e questo è che tu non pratichi con lui, perché non è pratica da te; e basta. E se lui venissi da te per la sopra decta lama, non gniene dare per niente; fagli buon viso e digli che io l’ho donata a uno mio amico; e basta. Sapi che la mi costò qua diciannove carlini, e tredici quatrini della gabella! (…) Se tu avessi data la daga a Piero, non gli dire altro; ma se non gniene hai data, non gniene dare per niente.” [6]

“Buonarroto, (…) tu m’avisi come Piero non ha voluto la daga. Io l’ho avuto molto caro che e’ non l’abbi voluta e che la non gli sia piaciuta, perché forse la sua sorte non era che lui la portassi a ciontola, e massimamente sendotella istata domandata da altr’uomini che non è lui, cioè da Filippo Strozi. Però, se tu vedi che ella gli piaccia, va’ e fagniene un presente come da te, e non gli dire niente quello che ella costa. Sapi che la lama io non l’ho vista; però, se ella non fussi recipiente, non gniene dare, che tu non paressi una bestia: perché a lui si conviene altra cosa che a Piero.” [7]

“Buonarroto, (…) duolmi ti sia portato di si picola cosa  si pidochiosamente con Filippo Strozi: ma poi che è facto, non può tornare adietro.” [8]

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[1] Al Fratello Buonarroto in Firenze, Bologna 19 dicembre 1506

[2] Ibidem, Bologna 2 gennaio 1507

[3] Ibidem, Bologna 1 febbraio 1507

[4] Trattasi di tal Piero garzone de Michelagnolo et non dello Piero Aldobrandini.

[5] Trattasi del Corte de Messere lo Papa allo tempore in Bolognia.

[6] Al Fratello Buonarroto in Firenze, Bologna 6 marzo 1507

[7] Ibidem, Bologna 26 marzo 1507

[8] Ibidem, Bologna 31 marzo 1507

Nello quale si descrive